Estate ’84

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Estate ’84

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Tradotto in Italiano: Giacomo Longi | Internazionale 2015

Mi stavo facendo la barba nel bagno del treno in modo da arrivare a Isfahan pulito e ordinato. Fuori albeggiava, erano le cinque passate e in pochi minuti i mattinieri con la vescica piena avrebbero cominciato ad accalcarsi dietro la porta e a scuotere la maniglia. Mi sono spalmato la faccia di schiuma e ho voltato le spalle allo specchio. Ho l’abitudine di non guardarlo quando devo radermi. Ogni volta che lo facevo mi tagliavo, perfino con quei Gillette a tre lame con cui, in teoria, ferirsi è impossibile. Per sfottermi i compagni del servizio militare mi dicevano di andare alla sede della Gillette a ritirare il premio, che di sicuro ce n’era uno in palio per chi riusciva nell’impresa di tagliarsi. Fatto sta che se mi radevo guardandomi allo specchio mi toccava sempre tamponare tre o quattro punti del viso. Comunque mi stavo facendo la barba rivolto verso la porta, quando il rasoio si riempiva lo passavo sotto il getto del rubinetto e poi tornavo a dare le spalle allo specchio.

Allora ho visto la firma. Era incisa sulla vernice rossa della parete in vetroresina, in un punto così alto da far supporre che il suo autore fosse stato bello alto. Aveva scritto “Estate ’84 Ziyaoddin” e disegnato una sigla di cui si distinguevano le lettere ta e ayn, proprio come la sigla di mio padre, quella che usava per gli assegni. Mio padre aveva una firma per ogni occasione: una per l’ufficio, una per la burocrazia, una, più elaborata ed elegante, per gli inviti e gli auguri di buon anno e una per le faccende economiche cioè, per esempio, gli assegni. Ho stretto le palpebre, più che altro perché una goccia d’acqua mi era scivolata dal sopracciglio. Non c’era dubbio, la firma era la sua. Mi ha solo stupito che fosse arrivato fin lassù. Sarà montato sul lavandino in alluminio e avrà inciso la firma con le chiavi dell’appartamento di via Mariam, quello comprato grazie al piano abitativo di Banisadr e che all’epoca non avevamo ancora finito di pagare. Ho continuato a radermi dando le spalle allo specchio, senza staccare lo sguardo dalla firma di mio padre. Era tutta sbilenca, non ferma e sicura come sempre. Doveva averla fatta mentre il treno era in movimento, durante una fermata non sarebbe venuta così storta.

La maniglia ha traballato su e giù e qualcuno ha bussato. Anche se sulla porta campeggiava il segnale rosso tredi occupato, il tizio non mollava la presa. Poi, probabilmente spinto dall’incombenza fisiologica, ha sferrato un altro colpo, la porta si è aperta e lui è entrato. “Che diavolo combini?”, ha domandato seccato.
Avevo metà faccia piena di schiuma e impugnavo il rasoio, non c’era bisogno di rispondere. Ho sollevato il rasoio e l’ho passato sulla guancia. Il tizio non era né un controllore né il capotreno, e non doveva essere nemmeno un poliziotto in borghese. Indossava un giubbotto da aviatore americano. Io mi stavo solo facendo la barba nel bagno del treno…

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