Vivevamo in una casa dove le porte erano chiuse. La porta della veranda era chiusa. La porta dello studio era chiusa. La porta a due battenti dell’ingresso era chiusa, ci avevamo messo davanti il divano americano. La porta del bagno era chiusa. La porta della cantina era chiusa. La porta del cesso in cortile era chiusa. La porta del solaio era chiusa. In primavera, autunno e inverno la porta del soggiorno era chiusa, non c’era gasolio per riscaldarlo. Rimaneva aperta solo d’estate. In soggiorno c’era un tavolo da ping pong dove io e mia madre ci sfidavamo. Per farmi arrivare al tavolo mi faceva salire su una brandina e cercava di non fare colpi troppo difficili. Mia madre aveva vinto il campionato delle studentesse iraniane e impugnava la racchetta alla cinese. Io, invece, giocavo all’europea. Vivevamo in un mondo dove le persone erano fedeli a un’ideologia anche per impugnare una racchetta. E io, fin dall’inizio, stavo con l’occidente.
I nostri stili erano agli antipodi. Mia madre tirava basso e stretto, io lungo. A me riuscivano meglio i sidespin, a mia madre i topspin. Nonostante mia madre avesse collezionato tutte quelle coppe, vincevo sempre io. Merito dello stile, il glorioso stile occidentale. Ma se mia madre giocava a ping pong seguendo i metodi asiatici, mio padre covava l’idea di trasferirci tutti quanti in Danimarca, un paese occidentale che però prevedeva agevolazioni economiche, indennità di disoccupazione e sussidi per i figli proprio come se facesse parte del blocco socialista. E per convincere mia madre a partire, ogni giorno a casa chiudeva sempre più porte…